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DON BYAS: L’EVOLUZIONE DEL SAX MODERNO PASSA ANCHE DA LUI


 
 
   
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/ di Francesco Cataldo Verrina //

Don Byas – «Anthropology», 1963

Ci fu una folta schiera di musicisti che a partire dagli anni ’40 trovò un «buen retiro» in Europa, particolarmente in Francia e nei paesi scandinavi, dove la passione del pubblico, dei media e della critica per il jazz era particolarmente sviluppata, spesso più che in madrepatria. A volte queste fughe duravano qualche anno, altre periodi assai più lunghi. I jazzisti, particolarmente quelli di colore, trovavano nella vecchia Europa condizioni di vita migliori. Universalmente accettati, non subivano le restrizioni della segregazione razziale. Non dimentichiamo che un artista dalla pelle d’ebano, per quanto famoso e di successo, fino alla fine degli anni ’60, in USA, non poteva pernottare in taluni alberghi riservati ai bianchi, andare a cena in certi ristoranti o acquistare una casa in alcuni quartieri, pur avendo denaro disponibile. Spesso all’estero trovano ingaggi migliori e maggiore considerazione da parte di produttori ed etichette discografiche; non di rado l’espatrio significava sfuggire al fisco o era dovuto ad una vera fuga legata all’uso di sostanze stupefacenti, poco tollerato dalle rigide leggi americane dell’epoca. Don Byas è stato uno dei grandi sassofonisti tenori della storia del jazz ma, a causa della sua decisione di trasferirsi definitivamente in Europa nel 1946, fu sempre sottovalutato dalla critica ed escluso da molti libri di storia del jazz.

«Anthropology» è un superlativo set, in cui Don Byas è supportato dal pianista Bent Axen, dal bassista Niels-Henning Ørsted Pedersen e dal batterista William Schiöpffe. Il sassofonista si misura in un club di Copenhagen con cinque standard. Nonostante l’età avanzata, all’epoca dei fatti aveva già 55 anni, si muove con l’agilità e l’energia di un ventenne, ancora disposto a mettersi in gioco ed a misurarsi con il corso degli eventi ed i mutamenti in atto in quel periodo. «Anthropology» venne registrato il 13 gennaio del 1963, un momento di notevole fermento creativo in ambito bop, sulla spinta degli innovatori e degli avanguardisti come Ornette Coleman e John Coltrane. Ascoltando Don Byas, scomparso nel 1972, in «Anthropology» e «Billies’s Bounce», risulta davvero difficile credere che un musicista con tali capacità, sia finito nel dimenticatoio e che, a parte alcun live, abbia registrato pochissime volte come band-leader, nonostante la lunga attività iniziata negli anni ’30. L’album in oggetto si sostanzia come uno dei suoi lavori più riusciti e, solo per questo, Byas meriterebbe una maggiore considerazione, attraverso uno studio approfondito delle decine di session a cui partecipò come sideman o in qualità di comprimario.

Nei circoli del jazz esisteva una teoria, per cui una volta che un musicista americano avesse lasciato il proprio paese per stabilirsi in Europa, il suo inevitabile declino sarebbe stato direttamente proporzionale alla durata dell’assenza. Il fatto che tale teoria potesse difficilmente essere supportata da qualsiasi riscontro reale, in riferimento a qualsiasi musicista espatriato, divenne presto irrilevante. Il jazz è un ambito in cui il dogma veniva difficilmente accettato come fatto concreto, per via dell’imprevedibilità dei tanti fenomeni che susseguivano, mettendo spesso in discussione il vissuto precedente. Dopo un lungo periodo di soggiorno all’estero, ad esempio, per Stan Getz o Dexter Gordon il ritorno in patria significò l’inizio di una nuova vita artistica. Un dato è certo, la lunga permanenza all’estero offuscò in parte la carriera di Don Byas, il quale al momento della realizzazione di «Anthropology» viveva in Europa da oltre due decenni, dopo essersi imbattuto nella band di Don Redman nel 1946. Quantunque la sua presenza nel mondo della discografia fosse stata irregolare ed incostante, solo un critico folle avrebbe potuto parlare di un declino, all’indomani dell’uscita di questo album.

Carlos Wesley «Don» Byas era nato a Muskogee in Oklahoma il 21 ottobre 1912. Durante gli anni ’30 lavorò al soldo di Eddie Barefield, Don Redman, Lucky Millinder, Andy Kirk e in altre altre big band dell’epoca swing, con una lunga permanenza nell’orchestra di Count Basie fino al 1941. Don era uno che amava le sfide, soprattutto perché le sue intuizioni sul sassofono furono sempre molto avveniristiche, tanto che nella prima metà degli anni quaranta divenne uno dei protagonisti nei vari club della cinquantaduesima Strada, luoghi di tendenza e di incontro della nuova generazione bebop. Il suo grande rivale all’epoca era Coleman Hawkins. A causa del dato anagrafico, nonostante uno stile ed un approccio sempre giovanile, Byas veniva considerato un musicista dell’epoca swing, vicino alla scuola di Coleman Hawkins, ma in realtà fu presto coinvolto nel bop e le sue idee ritmiche e armoniche si adattarono facilmente al nuovo filone, soprattutto non fu mai reticente a discutere il proprio ruolo nel jazz.

In un’intervista rilasciata a Valeric Wilmer, nel numero di Jazz Beat dell’ottobre 1965, dichiarò: «Molti dei moderni sassofonisti sono stati influenzati da me e per questo ho ottenuto una certa notorietà, anche se le persone confondono la questione su chi ha influenzato chi… Potresti sentire pezzi di Coltrane nel mio modo di suonare, ma ti dirò che se Coltrane ha cambiato suono, cosa che ho provato a fargli fare spesso, sarebbe molto difficile capire a chi stia facendo riferimento». Ovviamente Byas non si ferma qui. In quella intervista si toglie qualche sassolino dalla scarpa: «Vedi, io ero l’unico di quella specie di scuola di Hawkins che aveva idee moderne, non dissimili dalle sue. Molte delle cose che io e lui abbiamo inventato hanno definito quello che poi abbiamo chiamato bebop. Molte di quelle cose le avevo pensate proprio io. Per esempio, Parker era già influenzato da me ancor prima che diventasse famoso e molte delle mie idee l’hanno aiutato fino quando non è riuscito ad amergere. Alcune delle tipiche figure con cui oggi riconosciamo ed indichiamo il bop erano farina del mio sacco, ma non ne ho mai ricevuto il merito, perché sono rimasto fuori dalla scena americana troppo a lungo».

Sulla questione dell’espatrio, Byas respingeva fermamente l’idea che rallentasse il progresso musicale di un jazzista, addirittura portandolo al declino: «Ci sono due categorie di musicisti, i creatori e gli imitatori, mi sembra di essere uno dei creatori, quindi se mi trovassi nel mezzo del deserto del Sahara non cambierebbe nulla, sto andando nel modo in cui voglio andare, che è dove sono sempre andato». In un’intervista, Sonny Rollins, facendo riferimento ai musicisti che lo avevano influenzato, conferma le dichiarazioni di Don Byas: «A parte Coleman Hawkins, ad un certo punto, mi misi a studiare alla lettera lo stile di Don Byas, le sue intuizioni sullo strumento erano geniali, molti in ambito bop ne avevano ripreso la tecnica, è stato un vero genio del sax tenore, purtroppo dimenticato». In quel periodo Byas aveva cambiato stile, accrescendo la durezza del suo tono, alla ricerca di un suono più forte ed energico in grado di riflettere il modo di interpretare il jazz di quegli ultimi anni. Tutto ciò a detrimento di una sua tradizionale tecnica, morbida e raffinata, esaltata dalle ballate modello Coleman Hawkins.

Al momento della registrazione di «Anthropology», Byas preferì presentare un programma più moderno legato al bop, ma in maniera evolutiva, forse per sottolineare il suo ruolo nello sviluppo di quel tipo di idioma: momenti di durezza con evidenti linee improvvisative intervallati da ballate reinterpretate con l’uso di nuovi moduli espressivi, in modo che i contenuti di questa registrazione, effettuata live al Montmartre Club di Copenaghen, fossero un riflesso accurato del suo attuale approccio con la musica. La sezione ritmica risulta assai moderna, il bassista Niels-Henning Ørsted Pedersen si adatta bene al tracciato sonoro Byas. Il suo assolo in «Night in Tunisia», una delle versioni più riuscite, è da manuale; mentre Bent Axen dimostra una notevole inventiva in ogni dove; dal canto suo Byas domina a tutto campo. L’approccio alle ballate, quali «Moonlight in Vermont» e «Do not Blame Me» appare assai mutato rispetto a come sarebbe stato negli anni ’40. I suoi lunghi assoli sono pesantemente influenzati dal modulo espressivo di sassofonisti in auge in quel momento, come Sonny Rollins e John Coltrane; anche se indubbiamente – come già spiegato – si potrebbe sostenere il contrario: le corse in verticale, le discese ardite, le risalite e certe inflessioni tonali danno la dimensione di un qualcosa o di qualcuno che sia stato a stretto contatto con Coltrane o comunque già in possesso di un particolare bagaglio tecnico ed espressivo, tanto da consentirgli di misurarsi alla pari e senza complessi con i nuovi dettami del post-bop.

L’assolo di «Anthropology», non ha nulla a che spartire con quello che Don aveva registrato per la prima volta nel 1946, come membro del gruppo di Dizzy Gillespie. Ascoltando il disco al buio, senza indicazione alcuna, difficilmente si potrebbe affermare che non fosse proprio John Coltrane a suonare, piuttosto che Don Byas. All’epoca fra i due c’erano circa vent’anni di differenza. Non dissimile la situazione creata con un altro classico del bop, «Night In Tunisia», sempre di Dizzy Gillespie, che in questo album risulta completamente rigenerato e rimodellato da potenti fraseggi improvvisativi, raffiche di note e di accordi sparati in corsa, ancora una volta con una modalità esecutiva che rimanda al solito Coltrane, all’epoca il personaggio più ammirato per la sua evoluzione tecnica. «Billie’s Bounce», classico del repertorio di Charlie Parker, contiene uno dei migliori assoli del disco, dove lo stile di Byas è la risultante di un perfetto amalgama tra dispositivi swing-swing e hard bop, frutto di una naturale capacità di mantenere la continuità e di legare vecchio e nuovo senza traumi e fratture stilistiche.

Ascoltando questo album, è certamente corretto sostenere – come lo stesso Byas affermava – che egli sia stato l’unico sassofonista tenore della generazione di Hawkins ad esprimere perennemente idee moderne, così come appare ovvio che lo stesso Coleman Hawkins abbia sempre mostrato un notevole interesse per i nuovi sviluppi del bop. Tuttavia Byas in quel periodo era davvero il sax tenore più avanzato della sua generazione, nonostante, per le motivazioni già elencate, il suo ruolo nello sviluppo del jazz moderno sia stato tendenzialmente ignorato dai libri di storia. Risulta altrettanto chiaro che, quando registrò «Anthropology», Byas fosse in una condizione invidiabile, una sorta di stato di grazia: un musicista di esperienza e di considerevole spessore, dotato di una «giovanile» curiosità musicale che gli permise di utilizzare con scioltezza molti degli elementi di novità del jazz di quegli anni. L’album in oggetto è una prova inconfutabile della sua continua intraprendenza, ma incidentalmente divenne una sorta di automatica confutazione dell’insana tesi che l’espatrio conducesse gli artisti verso un lento declino o una progressiva perdita dell’estro creativo. «Anthropology», un unicum nella carriera di Don Byas, è da annoverarsi nella lista dei cento dischi più interessanti dell’era bop.
   
 
 
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