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// di Francesco Cataldo Verrina //
McCoy Tyner è stato uno dei pianisti jazz più importanti di
tutti i tempi, considerando che la sua opera si è consumata
nell’ambito di un range spazio-temporale abbastanza ampio,
abbiamo la possibilità di cogliere distintamente le tante
evoluzioni, le trasformazioni ed i mutamenti legati
probabilmente ad una spiccata capacità di adattamento ai tempi.
Di certo, Tyner non è stato uno che cavalcava l’onda o
scimmiottava le mode, il suo stile è sempre stato netto e
distintivo in ogni epoca da lui attraversata: talvolta fedele al
canone più tradizionale del bop, altre volte latore di novità ed
anticipatore di istanze sonore. Un dato può essere acquisito
agli atti: un conto è il McCoy Tyner dei dischi come
band-leader, un conto è il pianista che suona nel classico
quartetto di John Coltrane dei primi anni ’60, dove a decidere
era un’altra forma mentis, che comunque si completava e si
sostanziava spesso nell’apporto pianistico di Tyner.
McCoy Tyner ha sempre mostrato le stimmate di un predestinato,
sviluppando uno degli stili pianistici più caratterizzati ed
espressivi della storia del jazz moderno. Il destino fu benevolo
con lui sin dagli inizi. Nato povero e costretto ad arrangiarsi
con i lavori più duri ed umilianti come il facchinaggio, ebbe la
fortuna di abitare a pochi isolati da Bud Powell, di cui aveva
iniziato ad imitare la tecnica, sin dall’età di tredici anni,
stimolato dalla madre che lo aveva avviato allo studio del
pianoforte. Il giovane Tyner, dotato di un tocco potente, ma
elegante ed armonioso al contempo, cercherà di fare sue tutte le
istanze dei grandi maestri afro-americani, come Art Tatum, Duke
Ellington ed Earl Hines, ampliandone e modernizzandone le
intuizioni, ma soprattutto ponendosi in cima a quel lineage
evolutivo del pianismo jazz che dagli anni ’30 raggiunse vette
altissime fino all’avvento delle avanguardie.
McCoy Tyner – «Sama Layuca», 1974
In «Sama Layuca» c’è il McCoy Tyner all’apice dei suoi poteri,
sacerdote laico che ha assunto i sacramenti ed i paramenti del
modale; dirige la congrega, compone a schema libero, mentre
quando abbassa le mani sul piano disegna arazzi sonori con
lussureggiante lirismo, intrecciando i fili di una musica dai
tratti ecumenici. «Sama Layuca», non fu il primo e neppure
l’ultimo di una gratificante serie, che vedeva il pianista
contornato da un variopinto e variegato gruppo di eccellenti
esecutori e comprimari di lusso: il vibrafonista Bobby
Hutcherson, l’altoista Gary Bartz, Azar Lawrence al tenore e
soprano, John Stubblefield che raddoppia su oboe e flauto, il
bassista Buster Williams, il batterista Billy Hart e Mtume
insieme a Guilherme Franco alle percussioni. McCoy Tyner propone
un concept dalle sonorità avvolgenti, dispiegate come una
narrazione cinematografica, attraverso un percorso esplorativo
in crescendo. Tutti e cinque i frammenti dell’album sono
originali, legati da una sorta di causa-effetto e recano in
calce la firma del pianista leader.
«Sama Layuca», registrato al Sound Generation Studio di New York
per la Milestone il 26, 27 e 28 marzo del 1974, è un album non
frazionabile, sia pur suddiviso in cinque tracce, che sarebbe
più giusto chiamare movimenti, i quali appaiono ispirati,
concatenati dallo medesimo humus compositivo ed impregnati nelle
stesse sostanze sonore, dove tutto è omogeneo nella struttura,
nel contenuto e si equivale per forza espressiva e temperamento
poetico, mentre le melodie, le armonie e i poliritmi si muovono
trascinati da una leggiadra sensualità. C’è forse solo un
puntino da segnalare, dove le stelle brillano di più: un duetto
da accademia del jazz fra Tyner e Hutcherson in «Above the
Rainbow», la traccia più corta dell’album. «Sama Layuca» è un
momento di eccellenza del jazz anni ’70 in un contesto di forte
evoluzione, un’altra tappa vinta in volata nella lunga corsa di
McCoy Tyner.
McCoy Tyner – «Together», 1978
Il periodo passato sotto contratto con la Milestone, per McCoy
Tyner è stato certamente uno dei più prolifici e creativi della
carriera, avendo avuto l’opportunità di registrare seguendo una
molteplicità di impostazioni stilistiche e di poter scegliere,
quali compagni di viaggio, alcuni fra i suoi strumentisti
preferiti. Tyner mostra soprattutto il tocco di abile
arrangiatore, assai evidente in «One of Another Kind» per la
capacità di coordinamento dei vari strumenti a fiato. In «Together»,
album geniale, ma relativamente trascurato, l’innovativo
pianista si avvale di una super crew di strumentisti di grossa
caratura. Del sestetto fanno parte, oltre a McCoy Tyner al
pianoforte, Freddie Hubbard alla tromba e al flicorno, Hubert
Laws ai flauti, Bennie Maupin al sax tenore e clarinetto basso,
Bobby Hutcherson al vibrafono e marimba, Stanley Clarke al basso
acustico, Bill Summers alle congas e alle percussioni, e il non
accreditato Jack DeJohnette alla batteria (il suo nome non venne
scritto nei credits dell’album, per quisquilie contrattuali).
Solo due dei brani originali portano la firma di Tyner, le altre
sono composizioni di Laws, DeJohnette, Hutcherson e Hubbard. I
sei pezzi vengono sviluppati attraverso un hard bop modale di
alta qualità, dove ognuno dei componenti del gruppo ha la
possibilità di esprimersi liberamente e mettere in luce i propri
talenti, qualora ce ne fosse stato bisogno. In genere questi set
all-stars rischiavano di far emergere egoismi artistici, ma in
questo caso il senso di collegialità è perfetto ed equilibrato.
L’album venne pubblicato nel 1978, un periodo difficile per gli
storici artefici della grande epopea bop, ma per il jazz in
genere, che subiva l’attacco di agenti esterni, acidi,
contaminanti e corrosivi. Hubbard era lontano dai suoi giorni di
gloria con la Blue Note, cosi come sbiaditi erano i ricordi di
Maupin legati a Lee Morgan o Miles Davis; più di dieci anni
erano trascorsi dai fasti di McCoy Tyner in casa John Coltrane,
quindi ognuno dei musicisti giocò a tutto campo come se avesse
ancora qualcosa da dimostrare. L’effetto è sorprendente e
l’energia è quella di giovani esordienti. Gli assoli di Tyner
divampano, bruciando tempi e modi, come nel periodo legato al
quartetto di Coltrane. Il suo «Nubia» e «Shades of Light» di
Laws sono progressioni ad alta energia; sarebbero state perfette
per la Blue Note anche dieci anni prima. L’interludio di flauto
di Laws in «Shades of Light» aggiunge un leggero ma intrigante
cambiamento strutturale, rispetto alle sonorità declamatorie
dell’accordo di Tyner. Hubbard tocca il cielo con un dito e
manda in estasi chi ascolta con «Nubia», «Bayou Fever» di
DeJohnette, ma soprattutto con il suo «One of Another Kind».
DeJohnette è ovunque. Maupin e Clarke si esaltano in un duetto
di clarinetto e basso ad arco nel bel mezzo di «Bayou Fever».
Hutcherson sembra defilato, ma è costantemente brillante ed
inventivo, dando una prova di arguto e veloce «melodismo» nella
sulla sua «Highway One». |
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