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//di Bounty MIller //
Enrico Pieranunzi è una delle massime
espressioni del jazz italiano
del dopoguerra. Una lunga carriera fatta di riconoscimenti e
collaborazioni internazionali sono la testimonianza di un
talento non facilmente circoscrivibile. Sin dalle origini, lo
stile del pianista romano è pervaso da un senso di libertà
insito nell'originalità del suo modulo espressivo fatto di
riferimenti alla tradizione, al classicismo, ma geneticamente
visionario, innovativo ed a trazione anteriore. Le sue scelte si
sono mostrate sempre non convenzionali e poco manieristiche.
Quando Enrico
Pieranunzi diede alle stampe questo album,
il primo in piano-solo ed il secondo in assoluto della sua
carriera, l'Italia stava attraversando una stagione
politica compulsiva, i cui effetti si riverberavano sulla «nuova
scena jazzistica», la quale cominciava ad accorciare le distanze
«qualitative» ed a ridurre lo iato che la teneva lontana dal
resto d'Europa; il jazz italico si accingeva a dare vita ad un
autentico rinascimento culturale, con un sostanzioso aumento del
numero di musicisti attivi, portatori spesso di molte varietà di
stile e tendenze. Si usciva, finalmente, da un periodo di
isolamento legato esclusivamente ad importanti solisti come
Basso, Valdambrini, Volontè, Cerri, influenzati dagli stilemi
afro-americani, o ad un cerchia ristretta di artisti
d'avanguardia, quali Gaslini, Intra o il Modern Art Trio, che
davano respiro internazionale a un panorama nel quale c'era
posto solo per l'eccellenza.
Si passò così a una fase ricca di talenti
e ad una varietà genetica di proposte,
tra cui emerse prepotentemente la figura di Enrico Pieranunzi,
foriero di una marcata originalità compositiva ed espressiva,
nonché di un'abilità tecnica percepibile già ad un primo e
fugace ascolto della sua musica:
«The Day After The Silence»
costituisce una prova incontrovertibile di un cambiamento. Negli
anni settanta uscì allo scoperto un cospicuo numero di giovani
jazzisti, i quali si affermeranno soprattutto nel decennio
successivo animando la «nuova scena» e da cui presero forma le
prime scuole popolari di musica, come quella del Testaccio, di
cui Pieranunzi fu uno dei fondatori. Nel clima generale di
quella fase storica la sua figura rappresentava, per vari
motivi, un'anomalia. Erano anni dominati dal binomio
musica-politica, subdolamente basato su sibilline e faziose
dinamiche a cui il pianista romano, allora ventisettenne, non
aderì mai: «ero un uomo di
sinistra», raccontò in
seguito Pieranunzi. «Ma
non mi sentivo completamente dentro la cultura marxista.
Ritenevo la musica un'espressione
prima di tutto umana più che politica, portatrice di una sua
propria politica, quella della bellezza».
Pieranunzi era insegnante di pianoforte al
Conservatorio, un raro
portatore di una cultura strumentale accademica ed eurocolta,
che utilizzava consapevolmente in ambito jazzistico
trasformandola e ponendola al servizio delle sue
improvvisazioni; oltremodo il giovane Pieranunzi si esprimeva
attraverso un linguaggio raffinato, per nulla incline agli
slogan e in possesso di una vasta conoscenza, non solo musicale;
infine il pianista restava ancorato al modello tonale-modale del
jazz maturato a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta,
eludendo inizialmente il richiamo di un concept sonoro di tipo
«antagonista» e fugando la tentazione di cedere al free-jazz,
causa che avrebbe abbracciato diversi anni dopo, ma con una
regola d'ingaggio del tutto personale e quasi eccessivamente
dissonante. Lui stesso comprendeva di essere «un
jazzista italiano atipico, che a qualcuno creava problemi di
collocazione».
Al netto di ogni valutazione
socio-politica, quando
«The Day After The Silence» arrivò sul mercato ricevette
immediatamente il plauso da parte dei più autorevoli critici del
tempo: «il musicista è
rigoroso e sorvegliatissimo
- scriveva Walter Mauro - e si
colloca tra i massimi esponenti del jazz italiano con un disco
oltretutto esemplare». «Tecnica
magistrale, gusto impeccabile, fantasia straordinaria»
sono le affermazioni che si trovavano nella recensione di
Salvatore Biamonte; mentre sulla rivista canadese Coda si
leggeva di lui come del «più
interessante pianista attivo in Italia, dalle frasi articolate
con grande cura, dalla mente agile come le dita».
In Francia, Jazz Hot ne rilevava «la
grande sensibilità per le sfumature e l'assenza di tendenze
jarrettiane»,
mentre sull'antagonista Jazz Magazine si sottolineava «l'enorme
bagaglio tecnico, lo spirito del blues, la fenomenale mano
sinistra e le doti di compositore e improvvisatore».
Un consenso
internazionale, che raramente in
quegli anni i musicisti italiani potevano vantare: perfino
profeta in patria, consacrato dalle
liner notes
di Arrigo Polillo, il critico allora più in voga e temuto, il
quale evidenziava la molteplicità delle influenze di Pieranunzi,
attraverso cui giungeva alla creazione di uno stile originale.
Si potrebbe aggiungere un modello ancora contemporaneo, poiché
uno degli aspetti del jazz attuale è proprio la ricchezza di
riferimenti provenienti dai quattro punti cardinali della
musica, lo sguardo senza pregiudizi a tutto il passato al fine
di costruire il suono del presente, ossia una maniera
proteiforme di concepire il jazz di cui Pieranunzi fu
anticipatore ed antesignano, almeno in Italia. In quel periodo
nel suo linguaggio era facile individuare tracce di McCoy Tyner
e Chick Corea, particolarmente in relazione alla concezione
armonica di tipo tonale-modale; per compenso le sue composizioni
mostravano strutture e percorsi fortemente caratterizzati e non
ascrivibili ad alcuna scuola di pensiero, attraverso un
ventaglio di situazioni poco convenzionali che riflettevano un
mood sonoro inventivo ed articolato.
Ad esempio, «Prolusion», pur
imbevuto di modalismo tyneriano, è
sospinto da furenti bassi che rimandano all'ultimo
Tristano, mentre il
fraseggio elaborato in progressione, mostra una vorticosa
proiezione costantemente a trazione anteriore, frutto di una
tecnica già assai evoluta. «Trichromatic Line» sposa la causa e
gli assunti del nuovo pianismo anni Settanta: a volte pressante
e senza aria ferma, altre giocato su microscopiche digressioni,
quasi minimaliste. «A Gay Day» appare subito grondante di un
flusso melodico euro-centrico tratteggiato da richiami alla
tradizione popolare del Vecchio Continente. La title-track, «The
Day After The Silence», si sostanzia attraverso l'espansione
delle frasi che, concedendo ampio respiro al movimento
ritmico-armonico, dove il beat è costante ma la tensione
emotiva, prima del rilascio risulta alquanto dilatata; alcuni
tratti salienti di questa specifica architettura sonora sono in
parte riscontrabili anche
in «Aurora», un brano pressoché surreale, imperniato sulle
tipiche armonie quartali alla McCoy Tyner, mentre «Blue Song»,
una delle prime ballate iscritte al libro paga di Pieranunzi,
viene infarcita di sonorità vaporizzate ed eseguita con uno
spirito quasi cameristico.
«Our
Blues» nasce su un terreno assai fertile
e congeniale al pianista: gli basta rispolverare la cassetta
degli attrezzi per mantenere sempre scorrevole la sequenza
narrativa: dichiarazione-progressione-conclusione; per contro
l'audace «Blues Up» si materializza come una sorta di
jazz-boogie inerpicandosi con passo sicuro su una serie di tempi
doppi e tripli. Entrambi i componimenti denotano l'interesse per
il blues, come spiega lo stesso Pieranunzi: «Il
blues faceva parte di me praticamente da sempre, da quando avevo
messo per la prima volta le mani sul pianoforte. Era la prima
forma musicale che mio padre mi aveva insegnato e blues erano i
pezzi di Parker, Silver o dei Jazz Messengers sui quali, in modo
totale e viscerale, avevo costruito il mio linguaggio».
La ristampa di «The Day After The
Silence» regala al mondo
due jazz-waltz quali «The Mood Is Good», in cui si potrebbe
avvertire qualche citazione evansiana appena accennata, e
l'incisivo «The Flight Of Belphegor», ultimi due intarsi di un
gioiello musicale di notevole interesse storico, che evidenzia
quella componente del modus operandi di Pieranunzi divenuta
negli anni un paradigma ispirativo, quale retaggio del suo
polimorfico immaginario sonoro.
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